UN PO' DI SINTASSI TRIESTINA Dal greco syn (insieme) e tásso (disporre). Urlare "che no mona te vecia frena copi la se!" difficilmente consentirebbe al guidatore un'azione tempestiva e condurrebbe certo a conseguenze dolorose quando non funeste per l'anziana signora che sta imprudentemente attraversando fuori dalle righe. Se metà dell'arte dello scrivere consiste nel trovare le parole giuste, i rimanenti due terzi consistono senz'altro nell'attaccarle insieme in modo che il risultato sia comprensibile e magari anche scorrevole; farlo in maniera sciatta porta ineluttabilmente a mostruosi "ibis redibis numquam peribis" che irritano le vittime senza nulla fruttare all'autore se non rampogne - salvo, si capisce, in politica, ove senza tale prassi ben poco rimarrebbe da dire.
La sintassi triestina non è particolarmente ostica né troppo diversa da quella italiana; però il non rispettare le sue peculiarità intrinseche conferisce allo scritto un vago tono innaturale che mette sottilmente a disagio il lettore anche se scelta e grafìa dei vocaboli sono impeccabili.
Vediamo quindi insieme alcune di queste peculiarità.
PLEONASMI: come spesso accade alle parlate spontanee, il triestino usa piú parole di quante ne sarebbero rigorosamente necessarie: "Ti te ghe lo dà a ela" contiene due parole in piú rispetto a "Tu lo dai a lei", "te" e "ghe". Tuttavia senza queste due particelle inutili la frase in dialetto non starebbe insieme. Proviamo: "Ti te lo dà a ela"... mmh, no, ricorda tanto il regnicolo che si sforza di parlare in triestino, sembra quasi di sentire le doppie (o triple) che nonostante i suoi poco convinti sforzi gli sfuggono dalle labbra. E senza il "te" è ancora peggio, non si capisce niente - eppure quel "te" non è neanche il soggetto. E allora?
Quel "te" riprende il soggetto, ci sia o non ci sia, anche se in un certo senso fa parte del verbo o almeno della sua coniugazione. È infatti usanza triestina sottolineare il soggetto con una particella pronominale ogni volta che si parla di te, di lui (o di lei), e di loro. Perché? Mi venga un accidente se lo so. So però che se non lo si fa la frase suona storpia e non di rado incomprensibile. E c'è di peggio: questa ribaditura del soggetto s'ha da fare anche a distanza di molte parole o addirittura di intere frasi, superando anacoluti, incisi ed altre figure retoriche piú o meno intenzionali: roba del tipo "Quei paiazzi che gavemo eleto, e che me vegni un bruto brufolo dove che digo mi se tornarò mai a votarli de novo, i dovessi impararse che una piègora se la tosa tante volte ma se la scortiga una volta sola, ostia!" è frequentissima. Dimenticare quell'i prima di "dovessi" è quasi un dimenticare il soggetto per la strada, un po' come uscir di casa in pigiama e pantofole.Quanto al "ghe", esso ricalca sommariamente "a ela", ribadisce il concetto anche se non ce n'è bisogno, un po' come l'italiano somaresco "Tu glielo dai a lei". In qualche modo traduce con una certa esattezza l'italiano "glie-" e "ci": "Ghe sarà qualchedun a casa?". Omettendolo ci si rimette molto in eleganza e qualcosa in intelligibilità.
Ma il discorso sui pleonasmi triestini si guarda bene dal concludersi qui. Ad esempio condividiamo col castigliano (per ragioni certo legate al secolare predominio commerciale di Venezia sulle coste del Mediterraneo) il vezzo di far virare il complemento oggetto a complemento indiretto quando si tratti di persona: si potrà udire "A mi el me ga imbroià, a mi che son su pare!", pur essendo imbrogliare verbo transitivo in ogni lingua nota. Uso che ricorda da vicino un "¿A quien estás llamando?" tipico dello spagnolo ed assente altrove. Omettere di applicare questo dativo fasullo toglierà solo alla frase un po' di enfasi; tenerne conto le darà un colore squisitamente tergestino. Senza esagerare, beninteso, perché l'usanza non è piú tanto viva da marcare di sé ogni frase in dialetto che abbia per oggetto una persona.
Altro pleonasmo specifico del nostro dialetto pare essere un "che" piú diffuso dei portaborse in Parlamento: "Zerca de ricordarte dove che te lo ga imbusà!"; "Me xe restà solo che questo"; "No me ricordo quando che xe nato Ucio"; "Te ga presente chi che xe el diretor e come che el se ciama de nome?"; "No so gnanca come che se comincia!". E via avanti elencando sino ad esaurire lo spazio disponibile: sembra che questo diabolico "che" riesca ad infilarsi in tutte le interrogative indirette ed in un buon numero di altri luoghi impensati, piú o meno come la sabbia dopo un bagno a Grado. Ometterlo non compromette l'intelligibilità della frase, ma le conferisce un certo 'non so che' di regnicolo.
LES FAUX AMIS: gli amici falsi, le parole che sembrano facili da tradurre e poi portano alle gaffes piú imperdonabili ed espongono alle figure piú barbine. L'esempio classico è il "burro" spagnolo, che è il nostro muss - chi a Granada ordinasse "pan y burro" avrebbe poi problemi a mangiarselo, o per lo meno a goderselo. Ma non è certo l'unico, ce n'è da tutte le lingue a tutte le altre: l'inglese "gift" (come regalo) corrisponde esattamente al tedesco "Gift" (come veleno), fatto che suggerisce deliziose scenette popolate da sposi bilingui e suocere invadenti.
Il triestino non è affatto privo di simili trabocchetti, anche se essi facilmente sfuggono proprio a chi se ne dovrebbe guardare con maggior attenzione, ossia ai triestini stessi.Un primo esempio è il verbo "imparar" che, contrariamente all'apparenza, significa "insegnare": "Ghe go imparado al muleto a dirghe 'ebete' ala mama de Jole, ma ela no la ga aprezà chissà cossa". Laddove l'italiano "apprendere" si rende col riflessivo "impararse", nella sua corretta accezione di insegnare a sé stessi, dal momento che senza l'attiva partecipazione dell'allievo qualsiasi sforzo del maestro è comunque destinato a rimanere vano.
È curioso come in certe regioni dell'Austria avvenga un fenomeno linguistico inverso: "lernen" (apprendere, studiare) è normalmente diffuso, mentre "lehren" (insegnare) vi è quasi sconosciuto e viene di solito sostituito col primo, ingenerando cosí delle penose incomprensioni sul chi insegna a chi.Cior e ciapar: un tempo ormai remoto un amico d'oltre Po (e anche d'oltr'Arno, se proprio vogliamo) mi supplicò di delucidarlo sulla differenza fra questi due verbi in apparenza sinonimi ma poco o punto intercambiabili: le sue narrazioni su come avesse "ciolto ventiotto al'esame de patologia" o "ciapado una penna e una busta per scriver a casa" naufragavano nella discreta ma comunque irritante ilarità degli amici.
Ebbene, esaudire la sua richiesta non fu né facile né immediato. Poco soccorreva l'etimologia (entrambi dal latino, l'uno da tollo e l'altro da capio), nulla la consultazione dei dizionari. Mi occorsero alcune settimane di ipotesi a vanvera prima di arrivare all'idea che - con diverse possibili eccezioni - "cior" implica tendenzialmente la soddisfazione di una precisa volontà di prendere, mentre "ciapar" contiene in sé una certa dose di fatalismo: "Me go ciapà l'influenza" non comporta alcun particolare desiderio di restare a letto una settimana con trentotto di febbre, mentre "Vado a cior el giornal" e "Ciol quanti che te vol, tanto resta solo che do" fa conto sulla volontà del soggetto. Né a smentire questa (diciamolo pure: brillante) spiegazione vale il diffusissimo "Vado a ciapar sol", dal momento che il fatto di riuscire a prendere il sole dipende dalla collaborazione di Giove Pluvio, notoriamente aleatoria, infida e traditrice. Mentre la illustra a meraviglia il tristemente comune "La go ciapada in comio", dove qualsiasi cosa uno abbia preso in qualsiasi sito anatomico al di là del pietoso velo dell'eufemismo, certamente non è stato per sua volontà. Quanto a "ciapar l'autobus" e "cior l'autobus", quasi ugualmente popolari, direi che la scelta dell'espressione dipende dalla fede riposta nell'ACT da parte di chi la usa; va osservato con un certo rammarico che "ciapar l'autobus" è leggermente piú diffuso.intoparse in triestino è riflessivo, laddove in italiano inciampare si guarda bene dall'esserlo. Un'altra bizzarra analogia col castigliano, in cui ricorrono con gran disinvoltura "se ha caido" e addirittura "se ha muerto" anche nei casi in cui il soggetto si è ben guardato dall'esercitare su sé stesso l'azione menzionata. È in ispiritu una forma mediale.
LA CONSECUTIO TEMPORUM: ma cossa xe, se magna o se bevi? Già, il nostro dialetto non è particolarmente rigoroso in merito; anzi se non temessi di essere eccessivo affermerei che proprio se ne sbatte alla grande. In triestino ogni problema al riguardo si potrebbe risolvere molto elegantemente mettendo in un bussolotto i tempi del congiuntivo e del condizionale e poi estraendo a sorte cosa assegnare alla protasi e cosa all'apodosi. "Se gavessi, poderìa", "Se gaverìa, podessi", "Se gavessi, podessi", "Se gaverìa, poderìa" si mescolano allegramente nella parlata popolare senza che nessuno rabbrividisca per questo, salvo forse qualche insegnante giunto di lontano. E quanto ai tempi la cosa non è meno anarchica, anzi.
Proprio volendo buttar giù una regola di massima, ci si avvicina di piú all'antica parlata popolare invertendo (rispetto all'italiano) congiuntivi e condizionali, e facendo un minimo di sforzo per non straziare i tempi oltre i limiti dell'onesto: "Se gaverìa, podessi" e "Se gaverìa vù, gavessi podù", e ancora "Se gaverìa vù, a sta ora podessi". È tutto, credo. E, trattandosi del triestino, è anche molto.C'è da stupirsi che con simili presupposti fiorisca e prosperi invece - anche fra i triestini meno acculturati - un ricco ed appropriato uso del congiuntivo. Dopotutto una lingua diffusissima e non del tutto incolta come l'inglese offre appena (quando pure lo fa) una timida distinzione scritta che non sempre si avverte nella pronuncia. Eppure si tratta di un modo essenziale per distinguere un'ipotesi non confermata, o un'incertezza, o un dubbio, dalla tranquilla sicurezza dell'indicativo: so che lo ha visto, ma mi chiedo se gli abbia parlato.
Da noi non è affatto raro udire "No xe dito che mi sio sempio", mentre in inglese un "It's still to be proved that I be silly" passa piú facilmente per una sgrammaticatura alla Toro Seduto che per un preziosismo lessicale. Non è quindi il caso di aver pudore del congiuntivo triestino: si usa, eccome. Si omette per lo piú con l'intento deliberato di riprodurre una parlata incolta ed approssimativa.I VERBI AUSILIARI: esser e ver, un po' come in italiano. E come di consueto il primo si usa coi verbi intransitivi, il secondo coi transitivi.
Tuttavia - forse un retaggio a comune con lo spagnolo, che usa l'unico ausiliare haber - con le forme riflessive pare piú popolare ver: "Me go tolà pele scale" si sente dire piú spesso che "me son tolà pele scale". Comunque sia l'uno che l'altro sono normalmente bene accetti.
Un'altra differenza da non prendere sottogamba è l'uso obbligato di ver con tutte le forme impersonali: "Ieri sera xe piovú" avrebbe la doppia possibilità di essere interpretato o come un pesante regnicolismo, o come la narrazione approssimativa di come un amante imprudente abbia sfondato involontariamente il lucernario rovinando sul pavimento sottostante in uno spicinío di vetri infranti davanti agli occhi esterrefatti del legittimo consorte.LE ETÀ DELL'UOMO E DELLA DONNA: Trieste, è inutile negarlo, è una città sessista. Nei tempi ormai lontani in cui in Inghilterra si usava coprire i tavoli con lunghe tovaglie affinché la lasciva immaginazione degli uomini non ne venisse stimolata dalla vista delle gambe, qui si cantava già "Fazzo l'amor, xe vero / cossa che xe de mal?". E lo cantava una giovanissima voce femminile, come risulta indiscutibilmente dalle rime successive: "volè che a quindise ani, stio qua come un cocal?". Del resto è anche logico aspettarsi che in una città in cui gli uomini erano tanto spesso via per mare, le decisioni indifferibili venissero prese dalle donne - e beninteso anche quelle differibili. Non sarà mica... matriarcato? Bah, immagino che si possa anche trovare un termine meno drammatico, ma a poco vale cambiare l'etichetta sulla bottiglia quando il contenuto rimane tragicamente immutato.
Non stupisca quindi se al primo comparire dei sintomi di dimorfismo sessuale si fa avanti una divergenza fra i termini atti ad indicare le persone dei due sessi lungo l'arco dell'esistenza. Vediamoli.
cratura fioluz fiol muleto mulo giovinoto omo omo omo veceto cratura cratura cratura muleta mula putela baba cròdiga maràntiga veceta Dalla nascita fino alla tarda infanzia la distinzione è abbastanza virtuale: probabilmente l'assenza di *fioluza e *fiola è dovuta piú che altro al fatto che un genere solo basta per tutti senza che nessuno trovi ragione di lamentarsi - salvo forse i bambini stessi, il cui parere non è mai stato tenuto in gran considerazione. Ma già all'inizio dell'adolescenza i termini unisex scompaiono: all'inizio (almeno lessicalmente) è solo una distinzione di genere, che però evolve ben presto in termini fortemente differenziati del tutto inconfondibili gli uni con gli altri.
È notevole il fatto che col sopraggiungere della mezza età il maschio standard rimane omo fintantoché mantiene l'autosufficienza, mentre la femmina standard attraversa una serie di fasi semantiche, per la verità non tutte lusinghiere. Fenomeno che non può non stimolare la curiosità dello studioso.
La ragione va probabilmente ricercata nel fatto che, maritimo o altro che fosse, l'uomo attivo triestino usava starsene a produrre il denaro atto al sostentamento della famiglia, ma quasi ai margini della vita sociale non attinente alla sua attività o comunque fuori dai piedi, e non sempre per sua libera scelta. Mentre la donna, lasciandosi alle spalle per raggiunti limiti di età la condizione di baba con le relative implicazioni seduttive e già meno impegnata nelle sue funzioni materne dai figli ormai grandi, rimaneva libera di dedicare attivamente gran parte del proprio tempo agli affari altrui. Cosa non sempre apprezzata in tutto il suo valore dagli oggetti di tanta attenzione.I LAPSUS FREQUENTI: abituati come siamo a scrivere "in lingua", è molto facile che anche nella stesura di un testo in dialetto il fatto di scrivere prevalga su quello di scrivere in triestino. La penna cammina (o le dita volano veloci e sicure sulla tastiera) e quasi senza che ce ne accorgiamo scatta un riflesso automatico, una specie di vocetta che ci bisbiglia acida "Non si dice 'quando che', asino!". E le nostre dita scrivono ubbidienti "quando andavo a scola". Poi rileggiamo, la frase non suona bene... ma perché? Trovare un errore è mille volte piú difficile che farlo.
(continua)
PERIFRASI E NEOLOGISMI: (ancora in lavor)
TOSCANEGGIAMENTI: (ancora in lavor)
IL TURPILOQUIO: (ancora in lavor, xe sai cossa scriver!)
Chi sia arrivato fino a questo punto, vuoi leggendosi laboriosamente tutte queste ponderose riflessioni, vuoi onestamente saltando quanto non gli interessava, potrebbe chiedersi come mai per buttar giú questi appunti sul triestino io abbia usato l'italiano anziché proprio quel dialetto che avevo in animo di illustrare. Ben, una ragion vera no la ghe xe - o magari anche sì, però no propio fazile de ameter: a scriver in dialeto senza esser abituai se fa fadiga e mi soto soto son un poco lazaron, ma no stè 'ndar contar in giro una roba compagna.
Xe vero che a bordo se pol dir in qualsiasi lingua "bon, deghe do strazze sute e un piato de boba" opur "no gavemo spazio, torneghelo butar ai pessi", cussì salvandoghe o cavandoghe la vita a un naufrago. No xe la lingua che conta, xe l'intenzion. Però istesso i ne ga cazzà in testa a tuti l'abitudine de considerar el dialeto come una specie de 'lingua per viz', come una roba de no ciapar sul serio, come una maniera de scherzar fra de noi co' la maestra no la scolta. Insoma "Le robe serie se le disi e se le scrivi in lingua", i ne ga imparà de fioi co' no gavevimo bastanza cativeria de difenderse e de reagir.
Cussì oramai in noi questa xe diventada una seconda natura, come una reazion automatica: se xe scrito in dialeto e quindi xe per viz o poco via.
Ben, no xe gnente vero: almeno a mi in dialeto me xe capità de parlar de cadene proteiche, de reatori a fissiòn, dei diriti naturai del omo, dela vita de Mozart, dela poesia nel Faust, de detector al infrarosso remoto, del'educazion dei fioi, de come che funziona el nostro zervel e perfin de quel cabibaz geniale che iera Trilussa. De tuto quel che ghe xe de bon e cativo in tela vita, insoma.
E per zonta xe oramai sete ani che ogni giorno traduso in triestin almeno una parola e una frase famosa per quei scoverciai de Logos, un grupo de linguisti a Modena che se ga messo in testa de far un dizionario enciclopedico universal tratando i dialeti cola stessa dignità dele lingue. Ve par strano o ridicolo? Credeme pur che no: sarà anche un divertimento, gnente de dir, ma resta una roba fata sul serio.alanz